Ricordi della Milano – Taranto.
A volte mi domando come sia nata la mia passione per i motori visto che sono nato da una famiglia di professionisti con ben altre aspirazioni. Di origini romagnole, il mio ceppo nasce da un nonno chirurgo, primario all’ospedale di Bagnacavallo, da altro nonno, Generale dei Carabinieri, Comandante dell’Arma e da un padre Ufficiale di Marina e pilota idrovolantista nella prima guerra mondiale. Come pilota fu senz’altro bravo perché, in una azione di guerra, nella baia di Durazzo, salvò la vita al Marchese Francesco De Pinedo ma, come automobilista, era forse un po’scarso perché, in viaggio di nozze, alla guida di una Lancia Augusta, nel tentativo di accendere una sigaretta, finì in un fosso …..sic.
Ho amato la meccanica fin da bambino; ho costruito diversi motori a vapore e tentato, inutilmente, di motorizzare una bicicletta con uno dei primi motori per aeromodelli. Quando apparvero i primi ciclomotori (Alpino, Mosquito, Minimotor, Cucciolo, ecc), il mio interesse cadde sul “Cucciolo”, costruito, all’inizio dalla SIATA e, successivamente, dalla Ducati, perché era l’unico dotato di frizione e marce. Mentre ancora studiavo per prendere la maturità classica, falsificando la data di nascita su un documento, partecipai, con il cucciolo di mio fratello, ad una gara di regolarità. Con grande disappunto dei miei genitori, non seguii l’iter universitario dei miei fratelli, (laureatisi entrambi in medicina) e, con la supervisione (pignolesca, militare) di mio padre, aprii un negozio per la vendita di moto con annessa officina. Vinsi alcune gare nella classe 50 c.c. con un Motom preparato da me.
Poi, attraverso la conoscenza personale di mio padre con il Com.te Martino Aichner, in quel periodo dealer della Soc. Aero Caproni Trento, produttrice delle motoleggere “Capriolo”, presi la rappresentanza della Casa per Roma e Provincia.
Si parlava di un prossimo “Giro d’Italia” di velocità, a tappe, organizzato dal giornale “Stadio” di Bologna ed io, intenzionato a parteciparvi, preparai un Capriolo con le conoscenze approssimate che poteva avere un ragazzo ventenne di allora. E’ vero che mio padre, prima di mettermi in mano l’officina, mi mandò a Pesaro dal suo amico Filippo Benelli ma, in quindici giorni di catena di montaggio, cosa potevo avere appreso? Fu proprio in quel periodo che si radicò in me il tarlo dell’agonismo, della corsa perché, ogni giorno, entrava ed usciva dal reparto corse Luigino Ciai (successore di Dario Ambrosini, morto ad Alby, in Francia) con una 250 c.c. per percorrere il tratto di S.S. Adriatica, fino a Cattolica e ritorno, con tanto di scarico aperto e senza targa, Polizia consenziente!
Alla prima tappa del Giro d’Italia mi classificai tra i primi, mettendo dietro tante Laverda e Caprioli ufficiali ma una rottura a Roma mi costrinse al ritiro. Ottenni, però, dalla Aero Caproni un contratto ufficiale per le corse a venire, soprattutto per quelle di fondo. Potevo così aspirare alla famosa “MilanoTaranto”, la gara di velocità più lunga al mondo, chimera tanto sognata dai corridori e decantata dalla Stampa, che definiva “vincitori” non solo i primi ma, data la sua provata durezza, tutti coloro che fossero arrivati al traguardo. 10 – 12 giorni prima dell’evento la Caproni riunì a Trento tutti i corridori che avrebbero preso parte alla gara, più o meno uno per ogni Concessionario d’Italia e ci fece fare dei lunghi giri, più che di allenamento, di presa conoscenza con il mezzo.
Ci guidava Lodovico Facchinelli, esperto anziano corridore di prima categoria nella classe 500 e beniamino dei Trentini. Trento, Bolzano, Merano, vari giri del lago di Garda, tutti i passi delle Dolomiti ed io ero sempre l’unico attaccato alla targa di Facchinelli, che non superavo per rispetto, mentre gli altri venivano …un po’ dopo.
Più si avvicinava il giorno della gara, più mi rigiravo, insonne, nel mio letto, combattuto tra un senso di timore per l’impresa cui mi accingevo e quello di deludere chi mi aveva dato fiducia. Il giorno prima della gara fummo tutti trasferiti a Milano dove, in albergo, dopo una sana colazione, ci fu imposto di dormire il più possibile perché, alle ore 22 circa, ci sarebbero venuti a prendere per portarci all’Idroscalo, luogo della partenza. In un continuo dormiveglia, con l’assillante visione dello stivale d’Italia, mai così lungo, da percorrere alla massima velocità, in una impresa, per molti, impossibile. Già da un’ora prima che mi venissero a prendere io ero pronto: Tuta di pelle nera, stivaletti di vitello, fascia elastica alla vita, fazzoletto al collo.
In una tasca remota, qualche migliaio di lire, per qualsiasi eventualità.
Ci portarono all’Idroscalo, illuminato a giorno, l’aria velata da una leggera nebbiolina e pervasa dall’odore di olio di ricino (allora usato per le corse), un rumore infernale di motori da corsa, tutti senza silenziatori, i più con il “trombone” finale. Presi in consegna la mia moto e, con un meccanico, controllai ogni particolare: il pieno di benzina; i fili di scorta di freno anteriore e frizione, i ferri per smontare le ruote, il kit per riparare le forature, le maglie di ricambio della catena, le lampadine di scorta che, se ben ricordo, erano da 25 Watt, luce minima indispensabile per arrivare sui passi della Futa e della Raticosa, tra Bologna e Firenze dove sarebbe spuntato il sole.
Il primo concorrente della più piccola delle classi sarebbe partito alle 24.00 e, scaglionati di un minuto l’uno dall’altro, tutti gli altri. Sempre assordato dal rombo dei motori, dopo un’ultima pacca sulla schiena ricevuta dal mio direttore sportivo, l’Ing. Emilio Volcan, fui preso in consegna dagli addetti alla gara che provvidero a farmi allineare, in base ai numeri, dietro ad altri corridori.
Il cuore mi si era spostato in gola ed ero di continuo tentato di abbassare la frizione ed inserire la prima per essere più pronto alla partenza; solo il buon senso ed il mio innato pragmatismo me lo impedivano. Mi ripetevo: non è un circuito ma una gara che durerà 15 – 16 ore, una frazione di secondo non conta, se non affaticare la frizione ed il relativo filo. Stai calmo.
E venne il momento in cui lo starter abbassò la bandiera ed io mi lanciai verso il fondo di un tunnel nero. Messa la quarta, allungato il corpo totalmente in orizzontale, con il dorso dei piedi appoggiati su due supporti imbottiti sopra la targa, continuavo ancora a ricevere un po’ di luce dall’Idroscalo; poco dopo il buio totale, salvo la poca luce generata dal volano-magnete; avanti, a destra ed a sinistra, due ali di folla ininterrotte.
In prossimità delle poche curve della via Emilia, ampi cartelli segnalavano se la curva fosse a destra o a sinistra o se fosse necessario rallentare. Ogni tanto superavo qualche concorrente dopo averne preso la scia. Un po’ di lotta cominciò quando, a mia volta, fui raggiunto da qualche concorrente della classe 100 c.c.: con un altro faro davanti era facile “staccare” più tardi ed avvicinarsi all’altro concorrente. Più di una volta, (vi giuro che è vero) mi è capitato di spegnare il faro per non farmi vedere e di agganciarmi con un dito alla targa della moto che mi precedeva, riscontrando subito un aumento della velocità di tre o quattro Km/h.
Nel tratto notturno mi capitò spesso di vedere moto di cilindrata maggiore, che, dopo avermi superato, avendo bruciata la lampadina del faro, erano costrette a seguire la luce di moto meno veloci, per poi ri-sorpassarmi alle prime luci dell’alba.
Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna; i lunghi rettilinei sono finiti; comincia il tratto montano; non mi dispiace: con un più frequente uso del cambio, della frizione e dei freni ed il passare dalla posizione orizzontale a quella naturale del motociclista, le membra rattrappite riprendono vigore. Per la cronaca, i Caprioli per le corse di fondo erano dotati, oltre che all’appoggio per guidare sdraiati, anche di doppie pedane anteriori, entrambi con freno e cambio, una più avanti e l’altra più arretrata, usata, generalmente nei tratti misto-veloci. Ai lati della strada c’era sempre una fila ininterrotta di spettatori. In alcuni tratti del Passo della Futa, fitti banchi di nebbia rallentavano l’andatura ed erano molti i punti dove i corridori, per la scarsa visibilità, uscivano di strada, subito soccorsi dagli spettatori.
Ricordo un sidecar BMW, capovolto in una cunetta, con decine di persone attorno che cercavano di sollevarlo e riportarlo in strada. Molti i punti dove dei volontari, muniti di cartelli e bandiere, segnalavano ai corridori pericoli imminenti, quali scarsa visibilità, asfalto bagnato o sdrucciolevole o, peggio, macchie d’olio lasciate da moto cadute. Quando giunsi a Firenze era giorno fatto ed ampi cartelli segnalavano il punto di controllo e rifornimento. Avevo necessità di fare pipì, ero un po’ intirizzito dal fresco notturno e, come logico, non c’era un bagno a portata per cui, come molti altri concorrenti, la feci dove mi trovavo, coperto dai tecnici dell’Aero Caproni e dagli spettatori. Non ricordo se bevvi qualcosa.
Con il serbatoio pieno di benzina ed il cuore di speranza, imboccai la via Cassia che mi avrebbe portato a Roma. A Firenze mi era stato comunicato che ero in seconda posizione, distanziato solo di pochi minuti e la notizia mi diede più grinta nell’affrontare il misto veloce del passo di Radicofani. A Roma ero ancora secondo, a poca distanza dal primo. Le membra cominciavano a sentire i primi sintomi della stanchezza. I lunghi rettilinei che portano a Napoli e la posizione “a bandiera” mi diedero sollievo. Altri rifornimenti, altri controlli, altra pipì. Ogni tanto mi superava qualche moto di cilindrata maggiore; spesso mi salutavano con la mano guantata.
Superate le rampe di Ariano Irpino e le ultime propaggini dell’Appennino, il Tavoliere delle Puglie si stendeva davanti a me con i suoi interminabili rettilinei in fondo ai quali il cocente sole estivo faceva tremolare l’orizzonte. Dopo Foggia mi trovai a superare moto di grossa cilindrata i cui corridori, per la troppa stanchezza, procedevano sollevati, guidando con una sola mano, quasi a voler riprendere fiato. In un tratto di strada mi trovai a superare un concorrente, poco meno veloce di me, che, alla guida di una moto Guzzi “Dondolino”, mostrava un assetto strano, col viso appoggiato, si, al serbatoio ma inclinato da una parte, come dormisse: ed era, infatti quello che stava facendo, spostandosi piano piano sempre più a destra: sarebbe certo finito fuori strada se io, con una pacca sulla schiena, non l’avessi risvegliato dal suo torpore. Riaprire gli occhi, scalare una marcia, salutarmi e balzare avanti fu un tutt’uno. Più che stanco potrei dire che ero in uno stato di torpore generale: spesso stimavo vicina una curva od un ostacolo, scalavo una marcia, rallentavo, per poi accorgermi che, in realtà, ne ero ancora lontano.
L’immagine dello Stivale, così come lo si vede su una carta geografica, così come l’avevo visto a Milano alla partenza, stava per finire; Taranto era alle porte: a Napoli ero secondo ma ora in che posizione mi trovo? Finalmente passo il traguardo e, dall’esultanza dello staff Caproni capisco di avere vinto.
Ho vinto la gara di velocità più lunga del mondo.
Claudio M.Galliani
Novembre 2016


Claudio Galliani ha partecipato alle milano-Taranto del 1953, ’54, ’55 e 56 con questi risultati:
nel 53 n. 41 su capriolo 75 nella classe 75cc sport
(8° di categoria, 1° dei Caproni al controllo di Roma – si ritira 20 km dopo.
nel 54 n. 38 su capriolo 75 nella classe 75cc sport
(si classifica 1° di categoria in 15.34’54’’ alla media di 82,725 km/h)
nel 55 n. 30 su capriolo 75 nella classe 75cc sport
(3° al controllo di Bologna – si ritira A PESARO per GUASTO MECCANICO)
nel 56 n. 23 su capriolo 75 nella classe 75cc m.s.d.s.
(si classifica 2° di categoria con una media di 89,100 km/h)